Alessandro Rota è un ragazzo di 28 anni che ho conosciuto un giorno in estate non tanto tempo fa. Mentre mangiavo un gelato mi ha raccontato del suo lavoro. Mi è venuto un senso di vertigine.
Mi sono ripromessa che nel 2016 avrei cercato di trattare solo argomenti che possono in qualche modo ispirare in maniera positiva, proponendo nuove storie, impressioni. Ragionare di più e far riaffiorare alla memoria notizie che spesso finiscono in secondo piano. Così mi sono ricordata di quelle persone che segui sui social, che vivono un po’ quelle imprese impossibili, distanti da te anni luce. Per questo motivo ho deciso di chiamarlo su Skype. Io da Roma, lui da Erbil, una città nella regione del Kurdistan in Iraq, a 77 km dallo Stato dell’Isis.
Alessandro lavora come fotogiornalista freelance e negli ultimi anni ha documentato le condizioni difficili in molti paesi (Afghanistan, Iraq, Kurdistan, Iran, Libano, Somalia, Sud Sudan, Turchia, Kenya, Indonesia, Zambia e Tanzania) e ha catturato storie di attualità, spesso sulla condizione femminile. Un mestiere che non ti permette di porre nulla in secondo piano, dare per scontato non è contemplato. Pubblicato da una lunga lista di testate nazionali ed estere, dal National Geographic al Corriere della Sera a Internazionale. Quando al telefono mi ha raccontato le situazioni più complesse in cui si è ritrovato, mi sono venuti i brividi, non solo per i racconti delle bombe, dei volti, ma anche per la quotidianità. «Ogni situazione ha le sue complessità, la sicurezza, il tempo, la luce, la predisposizione di un soggetto a confidare i propri segreti. È sempre tutto diverso e per questo molto interessante» mi dice al telefono. Mi ha raccontato di aver visto partorire una ragazzina in Sud Sudan, di come è stato difficile e allo stesso tempo spontaneo parlare di vita e trovarsi di fronte ad una situazione così intima e forte. Alessandro ha deciso di racchiudere i suoi scatti in un progetto nuovo, un libro fotografico di cui noi abbiamo in anteprima qualche pagina in fondo all’articolo.
Cosebelle: Com’è nata la passione per il fotogiornalismo?
Alessandro: Mi sono innamorato della macchina fotografica mentre studiavo Disegno Industriale al Politecnico di Milano, ma ho scoperto che lo still life non era il mio genere. Mi piace l’azione e credo che la fotografia in questo caso possa avere un ruolo importante nel far riflettere le nostre coscienze… o per lo meno così è stato per me subito dopo che ho osservato le prime fotografie di reportage.
Com’è nata questa sensibilità per la situazione femminile? In Turchia in che modo ti sei relazionato con le famiglie?
Avevo appena finito di lavorare a due progetti molto faticosi a livello personale, in Sud-Sudan e in Somalia. Avevo bisogno di lavorare a qualcosa di più leggero ma al contempo non volevo perdere di vista quanto avevo appreso della Turchia contemporanea, così ho deciso di raccontare la storie dei femminicidi in un paese per certi versi tanto vicino a noi europei ma per altri abbastanza diverso per quanto riguarda i valori cardine della nostra società, e con questo non voglio dire che ritengo la nostra società perfetta, anzi. Con le famiglie è stato tutto molto semplice, grazie al supporto dell’associazione Kadin Cinayetlerini Durduracagiz (tradotto in We Will Stop Murder of Women) che con loro lavora da diverso tempo. Mi hanno subito accolto per quello che sono, un reporter che voleva raccontare la loro storia dal loro punto di vista.
La Turchia è ancora, ufficialmente, uno stato laico. Non so se hai visto il film Mustang, ma dimostra che non è così, soprattutto nelle parti più interne del Paese. Qual è stata la realtà che ti sei trovato davanti? Esiste una Turchia laica?
Purtroppo non lo ho visto, ma la Turchia, soprattutto la regione dell’Anatolia, zona più profonda del paese, ha un forte spirito religioso. Ma sicuramente esiste una parte che protende a valori laici e per così dire “europei” o occidentali. La società turca è molto variopinta e davvero un affascinante mix di culture diverse che dividono lo stesso territorio.
I reportage in Sud Sudan sono molto forti, è una guerra complessa che dura da decenni, come ti sei trovato lì e com’è nato il reportage sulla maternità? Cosa ti hanno raccontato le donne sudanesi?
La guerra in quei territori dura da cinquant’anni. La popolazione civile è allo stremo e benché cambino le bandiere, le dinamiche orrende della guerra non mutano. In quelle regioni serve la pace e raccontare la maternità in zone tanto ostili mi è sembrato un modo di dare un barlume di speranza ad un paese martoriato da lotte di potere. Il lavoro è nato dalla stretta collaborazione con la Ong Ccm (Organizzazione non governativa del Comitato Collaborazione Medica) e grazie a dei fondi della comunità europea.
La donna nelle situazioni di guerra è sempre penalizzata, ancora di più se madre. Quali sono le difficoltà di una donna nel Sud Sudan? Chi sono i suoi nemici? Credi che questa situazione sarebbe molto differente senza conflitto?
In Sud-Sudan la donna non ha gli stessi diritti di uomo, basti pensare che la poligamia è largamente accettata, ma solo da parte dell’uomo. Le mogli si comprano, letteralmente, e il marito deve risarcire alla tribù della moglie un numero preciso di mucche. Un patto stabilito in accordo con il padre della donna e la loro tribù prima del matrimonio. Il conflitto sicuramente peggiora ulteriormente le cose, i numeri dei casi di stupro sono al limite del credibile.
Le fotografie scattate in condizioni di guerra pensi che possano servire a cambiare l’opinione di chi le osserva?
Che una fotografia, un’immagine, una testimonianza possano fermare una guerra è un’idea molto romantica che spesso i reporter di guerra inseguono. Sicuramente la fotografia ha cambiato una vita, la mia, e così spero di fare altrettanto ad altri attraverso la mia fotografia. Spesso però è un po’ frustrante non avere un ritorno immediato e poter “misurare” quanto il proprio lavoro sia servito a rendere al pubblico la complessità del mondo che ci circonda; eppure sono certo che il mondo si cambi una testa alla volta.
Puoi trovare tutti i progetti fotografici di Alessandro Rota e seguire i suoi spostamenti sul suo sito: http://alessandrorota.photoshelter.com/
L'articolo Quando le foto raccontano i conflitti dimenticati. Intervista ad Alessandro Rota sembra essere il primo su Cosebelle magazine - Femminile, indipendente, brillante.